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Città e Campagna

    Opposizione da sempre tra cultura e ignoranza. Ma è ancora valida questa opposizione e se sì, in che direzione vale?

    Bene, eccome se è valida ancora oggi ma partiamo questa volta non in medias res ma da lontano.

    Come nel nostro non-Manifesto, e anche secondo Aristotele, l’uomo è Zoon Politikon ovvero, in soldoni, l’uomo è un animale che vive e tende ad accentrare attorno a se cose e persone. Questo per creare una stabilità per la propria sopravvivenza. Perfino agli albori della razza umana l’uomo creava mini tribù che, de facto, erano la propria famiglia: infatti per progredire (in senso di specie) l’unico modo darwinianamente possibile era che l’uomo e la donna di sostenessero a vicenda e che l’uomo proteggesse la donna e la prole da minacce e procacciasse di che sostentarsi: se l’uomo si fosse rotto una gamba nel cacciare la donna e la prole sarebbero stati probabilmente già spiedini per qualche tigre dai denti a sciabola. Se la donna non era nutrita abbastanza dall’uomo avrebbe dato alla luce una prole poco robusta e quindi l’estinzione di quel ramo genetico sarebbe stata inderogabile. Punto, niente storie e fronzoli, niente tramonti romantici sul laghetto pleistocenico.

    Poniamo che non ci fosse stata nessuna tendenza naturale a fondere due tribù diverse; anche solo per selezione naturale ad un certo punto qualcuna delle famiglie, inizialmente composta da pochi elementi, si sarebbe espansa: il primo genito/a avrebbe aiutato il padre a cacciare e supportare la madre nelle gravidanze, il secondo genito/a così in avanti. Quindi la tendenza sociale ad aiutarsi era necessaria per la sopravvivenza stessa della specie e chi non la attuava veniva selezionato (ramo genetico cancellato, estinto, niente tramonti). Sicuramente poi considerando mini tribù familiari (quindi un padre-madre alfa e stuolo di figli) che si sarebbero sicuramente incontrate, le possibilità erano: annientamento (mutua sconvenienza), fusione delle due tribù (necessità del compromesso e patti per arrivare ad una mutua convenienza), parziale separazione e parziale fusione (possiamo immaginare che uno dei ragazzi della famiglia A scappi con la ragazza della famiglia B creando di fatto un terzo gruppo che, se solido, sarebbe diventato un’altra tribù). Di fatto la seconda possibilità elencata è effettivamente quella che sicuramente ha avuto maggior successo. Sempre parlando darwinianamente, chi si è annientato non è sopravvissuto per definizione e quindi non ha avuto successo. Quindi vediamo che la mutua convenienza ha portato naturalmente l’uomo a riunirsi in gruppi per essere più forte contro altre tribù ma prima di tutto per sopravvivere agli eventi naturali. L’aggregazione ha portato a creare centri abitativi nomadi che poi hanno permesso la creazione di cultura. Il centro quindi della cultura diventa l’aggregazione comunitaria umana dove c’è chi caccia, c’è chi tende le pelli, c’è chi le pulisce, chi spacca meglio le pietre per farne punte di lancia e addirittura punte di freccia. Immaginiamo per esempio la scoperta dell’elasticità del legno e la creazione dell’arco: magari un bambino, tenuto da una balia, giocava a far male ai suoi amichetti tendendo una verga e a un vecchio (magari un trentacinquenne) gli è balenata un’idea geniale in testa vedendo questa cosa. Ricordiamo che la “sopravvivenza” dei vecchi è assicurata solo da un supporto della tribù dove effettivamente il vecchio è una risorsa fondamentale di conoscenza e giudizio. Il saggio è vecchio perché ne ha viste di tutti colori e mantenere il totem del vecchio significa prolungare quella conoscenza e saggezza. Quindi poi dalle tribù nomadi alla scoperta del bronzo e in parallelo alla creazione di città vere e proprie siamo passati a far sbocciare la necessità dell’agricoltura.

    Secondo noi è l’aggregazione in assembramenti sempre più grossi che ha portato alla “invenzione” dell’agricoltura e dell’allevamento e non viceversa. Poi chiaramente questa tecnologia ha sbloccato la crescita ulteriore delle città e poi civiltà.

    Quindi nelle città effettivamente si crea cultura e conoscenza grazie alla mutua convenienza della specializzazione, si aggrega non solo massa umana ma anche possibilità di creare arte, conoscenza, nuove scoperte. La campagna era per gli ignoranti che zappavano, il bosco peggio ancora, animali selvatici o al massimo un covo per ladroni. Potremmo dirlo spensieratamente, senza portare prove a dimostrarlo fino almeno ai tempi della rivoluzione industriale quando le cose effettivamente cominciarono a cambiare (rivoluzione industriale intesa localmente, ovvero l’Inghilterra del 1800 non era la Spagna dello stesso periodo). I sistemi industriali dell’epoca cominciarono ad accentrare masse di persone in città non per i fini culturali validi fino al tardo rinascimento bensì per lo shift di parametri dalla società agricola a quella prettamente industriale. Quindi il contadino emigrante nelle città per cercare ricchezza trova effettivamente un salario ma si sradica: perde le proprie radici, perde quella essenza familiare-tribale propria agli ambienti rurali. Il salariato è l’atomo che non può fare a meno del resto della società, fa un lavoro specifico, ricopre un ambito specifico, si omologa ai bisogni offribili dalla città, rinuncia alle libertà personali in nome del sistema.

    A questo punto quindi la città appare come un brulicare di formiche piuttosto che un centro di cultura e arte. Non è un caso che quando le aziende si fermano per le vacanze, lo sciame di cavallette lascia gli orridi efficientissimi appartamenti impilati uno sopra l’altro e scappa dalla famiglia nelle vecchie case di campagna (per chi ancora appartiene a quella generazione) altrimenti si ritrova in coda nelle spiagge sotto l’ombrellone (industrializzazione del tempo libero, intrattenimento!).

    In questo ordine industriale di utilizzo della manodopera, la città è ancora considerabile quel centro di aggregazione di cultura e arte? Noi diremmo proprio di no in senso effettivo, in senso lato lo è ancora, soprattutto nel momento in cui quell’arte ha un mercato e si vende. Quindi diventa show lo sfoggio dell’arte del nulla, l’arte dell’aperitivo, l’arte di bar che hanno le apparenze moderne, l’arte teatrale (non il teatro!!) che diventa di altissima classe funzionale allo show. Potremmo dire che tutto diventa superfluo così come il tiro con l’arco moderno che, precisissimo, utilizza contrappesi, sistemi di mira, bracci ammortizzanti oppure complicatissime leve per aumentare la potenza. Ovvero la differenza tra “sport” fatto per fare sport, solipsismo tecnico del raggiungimento dell’obiettivo, e attività reale. L’arco è base della caccia ma l’attività sportiva cittadina ha snaturalizzato l’attività originaria e l’ha trasformata in qualcosa di inutilizzabili a fini pratici. L’influenza della città, quindi, tende a trasformare le attività nobili, finalizzate a compiere un’azione magari non perfettamente di per se ma con la necessaria completezza, in attività iperspecializzate e fondamentalmente inutili se lasciate a se stesse.

    L’uomo completo e non asservito al sistema vedrà le inconsistenze e contraddizioni dovute ai comportamenti di massa che si verificano in concomitanza dall’assembramento eccessivo di materiale umano e la naturale tendenza, escludendo l’auto eliminazione schizzoide, è quella del ritorno ad un focolare umano e genuinamente caldo, distante dalla umida e fetida città. La prospettiva è ribaltata rispetto alla città medioevale, la campagna rappresenta quella via di fuga umana che riporta l’ordine delle necessità e la funzionalità delle attività. L’impiegato che lavora per un fine imperscrutabile e ignoto ritrova il senso del proprio esistere toccando la legna da spaccare che sarà quella che lo terrà caldo, scegliendo e cogliendo i funghi che possono nutrirlo o avvelenarlo, il contatto tra azione e conseguenze diretto e visibile automaticamente, l’idea di stipendio svanisce pur però restando quella di efficienza, soprattutto in termini temporali (quali attività prioritizzare rispetto ad altre).

    Agli estremi si trova chiaramente il passaggio al bosco, epilogo di questo sentire e conseguenza razionale di un sano di mente.

    Può quindi esistere una via alternativa a quella dell’attuale sfrenato centralismo cittadino? Esiste una via di mezzo che crei un connubio tra futurismo ipertecnologico e una realtà agricola? Noi pensiamo di sì. Questo si può ottenere soltanto eliminando la casta di termo-burocrati legalizzatori che decidono a priori cosa sia giusto e cosa sbagliato e riformando l’impianto normativo semplificandolo, ovvero tagliando. Nello stesso tempo l’attività dello stato dovrebbe proteggere attività centrali e strategiche riducendo il costo dell’energia. Al tempo dei romani gli schiavi erano “l’energia a basso costo” per attività complesse, altrimenti c’erano buoi, asini e cavalli. Nell’era industriale l’energia è passata lentamente dalla bruta forza lavoro alla materia prima, energia elettrica e/o cinetica motrice. L’unica via da questo punto storico in avanti è quella di minimizzare il costo dell’energia per far fiorire attività basilari strategiche (dalle acciaierie agli ospedali, dai campi di grano a miniere di rame) quanto quelle derivate e complesse come costruzione di cattedrali, fabbriche aeronautiche o cantieri navali. Senza costi bassi di energia non ci si può discostare dall’utilizzo dell’uomo come schiavo in forza lavoro. Sistemi robotici che praticano attività ripetitive e ad alta intensità energetica non sono che un braccio più grande, una leva più lunga dell’attività umana, l’arte sta nell’artigiano che sa saldare a mano al TIG e poi trasferisce quella sua conoscenza alle macchine ma ha la capacità di utilizzare la sua esperienza sperimentando e ricercando in quell’arte. Ma serve energia a basso costo!

    L’arte, quella vera, può fiorire proprio in quei centri cittadini dove le risorse basilari sono facili da reperire (non devi coltivarti tu la terra per avere un cespo di rape) ma non nel brulichio delle fogne. O magari sì? Si può trovare qualcuno che surfa l’onda fognaria del Kali Yuga e spacca questo nostro punto di vista? Sì certo, non siamo noi quei legalizzatori aprioristici che decidono le cose a tavolino anche perché sappiamo benissimo che la realtà pratica è formata da singoli individui che agiscono anche fuori da ogni schema statisticamente plausibile. Ciò non di meno…la statistica non è una scienza esatta, e questo lo sappiamo, ma va usata per comprendere le tendenze e le plausibilità.

    Viva il bosco, viva il futurismo, viva la conoscenza!